Trecase, NA, Italia
in Fuochi a mare
Con l’arrivo d’un reparto di negri che occupò l’edificio delle scuole elementari, e parte si attendarono anche in pineta, la signora Bianca De Lise proibì ai ragazzi d’avventurarsi oltre i confini della loro proprietà: i canneti e le siepi di lava segnarono i limiti assegnati alle esuberanti scorribande infantili e fu già, per l’apprensione materna, permesso troppo libero e largo. Ma le giornate scorrevano tranquille sul piccolo villaggio, né ci fu l’eco di alcun incidente: dopo qualche tempo la signora Bianca De Lise se ne sentì alquanto rassicurata, tuttavia pretese egualmente che i ragazzi svolgessero i loro giuochi sotto il proprio sguardo vigile.
A sera venivano in visita amici: le signore preferivano portarsi le sedie sul terrazzino, dove c’era più fresco, aspirando i profumi della terra nel buio che li solleticava sino a renderli acri: lavoravano qualche ricamo, qualche giacca a maglia per il prossimo autunno. Un insetto volteggiava intorno alla lampada, e il vento altalenava l’ombra della ventola sul muro. «Guardate un po’, Elisabetta, comincio a diminuire per lo sgavaglio?». I grilli frinivano dentro i cespugli, s’udiva a volte un richiamo lontano. «In fondo la sera è calma, a Trecase», osservava la signora Bianca De Lise: «per fortuna con questi negri accampati qui, non si sentono le orribili cose che leggiamo sui giornali». I ragazzi erano raccolti nella cucina a pianterreno dove Luisa aveva sempre da rammendare ceste intere di biancheria, trascorrevano tutta la sera a giocare tra loro e a bisticciarsi, a volte le loro grida si sentivano sin sul terrazzino. «Poveri ragazzi, hanno delle vacanze mortificate, per via di quei negri. E poi un’altra cosa non mi piace», diceva la signora Bianca De Lise, «(sì, cara, cominciate a scalare una maglia ogni giro), io non voglio che i miei bambini chiedano la cioccolata o la gomma masticante, ai negri». La signora Bianca De Lise sentiva che c’era un piccolo residuo di dignità da cercar di salvare, in tanto naufragio, e le amiche approvavano: «È giusto, è la sola cosa che ci resti». Le amiche erano giovani signore dignitose e composte. A volte dicevano, abbassando un poco la voce: «Queste sfacciate delle nostre ragazze! Avete saputo che…?».
Gli uomini si trattenevano nello studietto del signor Carlo De Lise, fumando e parlando di politica, oppure di viaggi, progetti di viaggi: «Quando le ferrovie saranno riattivate per bene e viaggiare non costituirà più un lusso di pochi o un pericolo per i banditi». «Se lo vedremo, questo giorno», qualche altro concludeva scettico mandando fuori inanellate volute di fumo.
La sera è calma, a Trecase. I grilli dentro le siepi sono i soli impazziti, e lo stridore delle instancabili elitre riempie i campi sino ad attenuarne quasi la solennità, con quell’osti-nazione petulante e chiassosa. A volte s’ode anche un cane abbaiare, a intermittenze, da un cascinale, magari abbaia al torpido tonfo d’un frutto caduto sul terriccio, e sembra invece che voglia unicamente sottolineare quanto vasta sia intorno la campagna cullata dal fresco vento della sera.
In cucina, Luisa rammendava sempre ceste enormi di panni: «Ma è possibile, ragazzi, che vi riduciate i vestiti a brandelli? E tutte queste macchie di more che nemmeno al bucato vanno via!». Ma i bambini intenti a giocare la ignoravano, le parole di Luisa risonavano inutili. Ella rammendava presso la finestra aperta, respirava anch’essa un poco l’odore del vento notturno che sveltisce il sussurro delle foglie, o guardava le stelle.