Vico Santa Maria a Cappella Vecchia, Napoli
È una vergogna che ci sia al mondo cielo simile. È una vergogna che il cielo, in certi momenti, sia com’era il cielo quel giorno in quel momento. Ciò che mi faceva correre per la schiena un brivido di paura e di schifo, non erano quei piccoli schiavi appoggiati al muro della Cappella Vecchia, né quelle donne dal viso scarno e vizzo incrostato di belletto, né quei soldati marocchini dai neri occhi scintillanti, dalle lunghe dita ossute: ma il cielo, quel cielo azzurro e limpido sui tetti, sulle macerie delle case, sugli alberi verdi gonfi di uccelli. Era quell’alto cielo di seta cruda, di un azzurro freddo e lucido, dove il mare metteva un remoto e vago bagliore verde. Quel cielo delicato e crudele, che sulla collina di Posillipo dolcemente incurvandosi si faceva rosso e tenero come la pelle di un bambino. Ma dove quel cielo appariva più delicato e crudele, era lassù, lungo l’orlo del muro ai piedi del quale stavano seduti i piccoli schiavi. Il muro che fa da sfondo al cortile della cappella vecchia è un alto muro a picco dall’intonaco tutto screpolato dal tempo e dalle stagioni, che una volta era senza dubbio di quel colore rosso delle case di Ercolano e di Pompei, che i pittori napoletani chiamano rosso borbonico. Gli anni, la pioggia, il sole, l’abbandono, hanno stancato, addolcito quel rosso vivo, dandogli il colore della carne, qua rosea, là chiara, più in là trasparente come una mano davanti alla fiamma di una candela. E fossero le screpolature, fossero le verdi macchie di muffa, o quei bianchi, quegli avori, quei gialli affioranti qua e là dall’intonaco antico, o fosse il gioco della luce, ad ogni momento cangiante per il vario riflesso del continuo, mutevole moto dell’attiguo mare, o per l’errante inquietudine del vento, che secondo soffia dal monte o dalla marina tinge diversamente la luce, mi sembrava che quell’alto, antico muro avesse vita, fosse una cosa viva, un muro di carne, dove apparissero tutte le avventure della carne umana, dalla rosea innocenza dell’infanzia alla verde e gialla malinconia dell’età declinante. Mi pareva che quel muro di carne a poco a poco avvizzisse: e ne affioravano quei bianchi, quei verdi, quegli avori, quei gialli smorti, propri della carne umana già stanca, già vecchia, già solcata di rughe, già prossima all’ultima, meravigliosa avventura del disfacimento.