Scala a San Potito, Via Enrico Pessina, Napoli, NA, Italia
Quattro o cinque rampe di gradini bassi di pietra scura e l’aria di giugno a mezzanotte che stagna negli angoli umidi: sul terzo o quarto pianerottolo una gran porta chiusa lascia intravedere un buio polveroso, e forse una stanzaccia abbandonata. Una grossa catena pende a difesa, chiusa da un lucchetto arrugginito. Il padrone deve esistere e certo se ne serve per qualche uso. Ma le scale salgono oltre. A dormirvi sono rimasti soltanto due vecchi: zio Pasquale e la moglie, dal nome così comune che non ricordo mai, forse Carmela. Tutti gli altri, i clienti di quest’inverno, pare siano andati via col caldo, cercando un riposo meno soffocante chi sa dove, sulle panchine dei parchi o sotto le arcate dei ponti. Sono uscito da poco dal cinema Bellini e non intendevo venire qui. Vi mancavo da alcuni mesi. Se non si riprende subito contatto con gli oggetti, la stanza, tutto ciò che apparteneva alla persona cara che è morta, si rischia di non liberarsi più da un senso di sgomento e di timore. Da quando il mio amico Giovanni aveva finito di vivere, alcuni mesi fa, non m’ero mai più sentito l’animo di rivedere le scale. Ed ora, ecco, sono qui dove ci siamo conosciuti, dove ha vissuto nell’ultimo inverno, quello precedente l’estate a cui questa notte appartiene. Non voglio salire oltre. Non c’è nessuno se non quei due, così vicini anche loro ormai alla fine della vita, e dormono rannicchiati nell’angolo del pianerottolo. Per tutte le scale, davvero, solo quei due. E silenzio, e caldo, e bucce di mela sui gradini.
Quella sera di gennaio le scale di San Potito ospitavano i clienti soliti ed erano tutti in procinto di coricarsi. Sul terzo pianerottolo la famiglia di Armando disputava con la vecchia Assunta per l’eterna questione dello spazio riservato a loro ed a lei. Armando s’affacciò alla ringhiera guardando giù. Vide un suo amico, sulla rampa del secondo piano. «Felice? Non dormi stasera?» «Non tengo sonno. Che schifo di giornata!» gli urlò l’altro. E così fu stroncato il dialogo con quell’esclamazione sempre ricorrente sulle labbra di Felice. Quelle parole erano per lui come una caramella che potesse addolcirgli il sapore della vita. Che schifo! Il movimento scemava. Era tardi, le undici quasi, e s’udiva di fuori la pioggia cadere. I passanti rarissimi.